ASFR - Frammento
      ASFR Frammento
 


Agostino, Confessioni IX, 6


Quanto ho pianto di profonda commozione al sentire risuonare nella tua chiesa il sereno modulare dei tuoi inni e cantici! Quelle voci che scendevano alle mie orecchie favorivano il fluire della verità nel mio animo infuocandolo di devozione mentre le lacrime scorrevano: ed io ne sentivo un gran benessere.



Agostino, Confessioni IX, 7

Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all'unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore. Era passato un anno esatto, o non molto più, da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall'eresia in cui l'avevano sedotta gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, il tuo servo. Là mia madre, ancella tua, che per il suo zelo era in prima fila nelle veglie, viveva di preghiere. Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall'ansia attonita della città. Fu allora, che s'incominciò a cantare inni e salmi secondo l'uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt'oggi e imitata da molti, anzi ormai da quasi tutte le comunità dei tuoi fedeli nelle altre parti del mondo.


Agostino, Confessioni X, 33

I piaceri dell'udito mi hanno impigliato e soggiogato più tenacemente, ma tu me ne hai sciolto e liberato. Fra le melodie che vivificano le tue parole, quando le canta una voce soave ed educata, ora poso, lo confesso, un poco, ma non al punto di rimanervi inchiodato, cosicché mi rialzo quando voglio. Tuttavia per entrare nel mio cuore insieme ai concetti che le animano, vi esigono un posto non indegno, e io difficilmente offro quello conveniente. Talvolta mi sembra di attribuire ad esse un rispetto eccessivo, eppure sento che, cantate a quel modo, le stesse parole sante stimolano il nostro animo a un più pio, a un più ardente fervore di pietà, che se non lo fossero; tutta la scala dei sentimenti della nostra anima trova nella voce e nel canto il giusto temperamento e direi un'arcana, eccitante corrispondenza. Ma spesso il piacere dei sensi fisici, cui non bisogna permettere di sfibrare lo spirito, mi seduce: quando la sensazione, nell'accompagnare il pensiero, non si rassegna a rimanere seconda, ma, pur debitrice a quello di essere accolta, tenta addirittura di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza avvedermene, e poi me ne avvedo. Talora esagero invece nella cautela contro questo tranello e pecco per eccesso di severità, ma molto raramente. Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa ogni melodia delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti mi sembra più sicuro il sistema, che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve, da sembrare più vicina a una declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Così ondeggio fra il pericolo del piacere e la constatazione dei suoi effetti salutari, e inclino piuttosto, pur non emettendo una sentenza irrevocabile, ad approvare l'uso del canto in chiesa, con l'idea che lo spirito troppo debole assurga al sentimento della devozione attraverso il diletto delle orecchie. Ciò non toglie che quando mi capita di sentirmi mosso più dal canto che dalle parole cantate, confessi di commettere un peccato da espiare, e allora preferirei non udir cantare. Ecco il mio stato. Piangete dunque con me e per me piangete voi che in cuore avete con voi del bene e lo traducete in opere: perché voi che non ne avete, non vi sentite toccare da queste parole. E tu, Signore Dio mio, esaudiscimi, guarda e vedi e commisera e guariscimi. Sono diventato per me sotto i tuoi occhi un problema, e questa appunto è la mia debolezza.


Agostino, Commento al Salmo 99, 4

Vi dirò cose risapute. Chi giubila non pronunzia parole ma emette dei suoni indicanti letizia, senza parole. Il giubilo è la voce di un cuore inondato dalla gioia, d'un cuore che, per quanto gli riesce, vuol manifestare i suoi sentimenti, pur senza comprenderne il significato. L'uomo che in preda alla gioia si mette ad esultare, da parole che non si riesce né a dire né a comprendere passa a delle grida di esultanza ove non ci sono più parole. Dai suoni che emette si vede benissimo che egli è contento ma anche che, sopraffatto dalla gioia, non riesce a dire a parole ciò che lo fa godere. Osservate tutto questo nei cantori, anche di canzoni disoneste. Non che il nostro giubilo debba essere come il loro (noi dobbiamo giubilare nella giustizia, loro giubilano nell'iniquità; noi nella confessione, loro nella confusione!); tuttavia, per farvi capire ciò che intendo dirvi o, meglio, per ricordarvi ciò che già sapete, guardate come giubilano, fra gli altri, i lavoratori dei campi. Soddisfatti per l'abbondanza del raccolto, i mietitori, i vendemmiatori, o qualsiasi altro raccoglitore di frutti, cantano e tripudiano, lieti della fertilità e fecondità della terra. In tali canti, espressi a parole, inseriscono delle grida inarticolate, che palesano l'ebbrezza del loro animo in preda alla gioia. E questo è ciò che si chiama giubilo. Se qualcuno di voi non capisce ancora di queste cose per non averci mai fatto caso, ci badi in avvenire. E voglia il cielo che non trovi persone in cui osservare di tali cose!, cosicché Dio non abbia più alcuno da punire. Ma siccome non cessano ancora di spuntare delle spine, osserviamo pure in coloro che esultano malamente il giubilo riprovevole, per offrire a Dio il giubilo che merita la ricompensa.


Agostino, Commento al Salmo 32, 3

Cantate a Lui un cantico nuovo. Spogliatevi di quanto è in voi vecchio: avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, Nuovo Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi: lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia, che già appartengono al Nuovo Testamento, che è il Regno dei cieli. Ad esso sospira tutto il nostro amore, e canta il nuovo cantico. Lo canti però non con le labbra, ma con la vita. Cantategli un cantico nuovo: bene cantate a Lui. Ognuno chiede in qual modo cantare a Dio. Canta a Lui, ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie siano offese. Canta bene, fratello. Se, al cospetto di un buon intenditore di musica ti viene detto: canta per piacergli, tremi nel cantare, se non hai alcuna preparazione nell'arte della musica, perché non vorresti essere sgradito a quel musico; infatti ciò che in te l'inesperto non nota, l'artista rimprovera. Ebbene chi si fa avanti per cantare bene a Dio, il quale sa giudicare il cantante, sa esaminare tutte le cose e [tutto] udire? Quando puoi offrirgli una così elegante bravura nel canto da non essere in nulla sgradito ad orecchie così perfette? Ecco che Egli quasi intona per te il canto: non cercare le parole, quasi che tu potessi dare forma a un canto per cui Dio si diletti. Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza poter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti a esultare di gioia, ma poi, quasi pervasi da tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lascian cadere le sillabe delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile è infatti ciò che non può essere detto: e se non puoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Cantate a lui con arte nel giubilo.



Giuseppe Vettori e il canto gregoriano

Dicono che un attimo prima della morte - per i privilegiati che riescono a viverselo con consapevole serenità, quell'attimo terribile e risolutivo - la mente contempli tutti assieme, senza ordine apparente, fatti e figure che hanno, chissà perché, lasciato un segno.

In quell'attimo, quando sarò, fra le immagini che mi circonderanno - io credo - vedrò:

- Mio padre che intona "Ave maris stella", con voce forte e sonora, e in quelle note vibra insieme la tenacia del gregoriano e la gioia e la rabbia del canto contadino di protesta.

- La pace sonnolenta del primo mattino, in campagna, col sole appena sorto e le cose che vengono nitide a poco a poco; e la processione delle Rogazioni avanza lenta, e io sono lì, vestito sa chierichetto e con la navetta dell'incenso; "Propitius esto", canta il sacerdote, e io, e pochi altri: "Te rogamus, audi nos"; e io so appena leggere, compitando, ma le litanie dei santi le ho da tempo apprese a memoria.

- L'orgoglio della prima Messa degli Angeli, imparata la sera dopo cena, insieme a cinque o sei ragazze, stanche, contente, volenterose; maestro è mio padre - quinta elementare! - e io ho sette anni.

- Le lacrime e un brivido, al "Libera me Domine" che un sacerdote e un coro di contadini cantano sulla bara di mio padre; io ho nove anni; mia madre, piangendo, recita la "diasilla".

- Il sonno affascinato e intermittente dei Mattutini in Seminario; è la settimana santa, e non c'è scuola: tutto ruota attorno a un Dio che si è fatto uomo e che gli uomini stanno per uccidere: se Lamentazioni, la preghiera di Geremia… mi assopisco un attimo, poi rispondo, di soprassalto, ai versetti di un salmo.

Sono un non credente, quel che si dice un agnostico; ho lasciato la Chiesa, ormai, da trent'anni, senza ripensamenti significativi. Nel frattempo, del resto, la liturgia è cambiata radicalmente: niente latino, niente gregoriano, simboli del tutto modificati, persino l'altare ha cambiato di posto. Allora perché questo volumetto?

Forse sarà meglio cominciare col dire che cosa questo libro non è, né intende essere.

Non una raccolta organica e ampia di canti gregoriani (..), non un saggio storico e nemmeno un pamphlet, rozzo o raffinato, di destra o di sinistra, una di quelle cose con cui un non credente pretende di insegnare al papa a fare il papa, e ai cattolici come raccogliersi e pregare.

No, ho curato questo libro per una riflessione mia: una riflessione con me stesso e col mio passato, un conto aperto che vorrei, se non chiudere - c'è mai qualcuno che chiude davvero qualcosa? - ripassare e verificare.

Spero che da queste pagine, da questo itinerario nella memoria, appaia il canto gregoriano così come io l'ho vissuto. Nato dall'amore, dal genio, dalla cultura raffinatissima di cantori e musicisti grandi e sconosciuti, si è trasmesso di generazione in generazione esprimendo la tristezza, il giubilo, la sofferenza, la paura e la voglia di vivere di grandi protagonisti e di anonimi senza storia; a questi ultimi ha fornito per secoli una mitologia credibile, un teatro affascinante, una lingua magica e misteriosa. Milioni di esseri umani, nel rito scabro e ancestrale delle sue morte, hanno imparato a convivere con la morte, ad accettarne l'idea, a temerla un po' meno.

Da oltre trent'anni il gregoriano è praticamente scomparso dalla liturgia cattolica. Certo, non ufficialmente. Ho letto anch'io i documenti conciliari che ne confermano la funzione. E la Libreria Editrice Vaticana propone edizioni critiche impeccabili di quel repertorio. Ma è un repertorio sparito dalle chiese; la sostituzione del latino con le lingue nazionali (1) ne ha segnato il destino. E dunque: stiamo celebrando un caro defunto?

Nella basilica inferiore di San Clemente, a Roma, interrata per sette secoli e da non molto scavata e riportata in vita, c'è un affresco d'autore anonimo, un po' rovinato ma leggibile ancora. Illustra la leggenda di una cappella, sommersa dalle acque del mar nero, nel luogo dove il corpo di papa Clemente giacque dopo il martirio. Ogni anno, nel giorno della festa del santo, per miracolo le acque defluiscono, la cappella riemerge, i fedeli si affollano a pregare, finché la sera le onde tutto ricoprono, fino all'anno seguente. Ed ecco che una volta, tutta presa dalla sua devozione, una mamma, uscendo dalla cappella, non si accorge che il suo bambino non è più con lei, Le sue lacrime disperate nulla possono contro il mare, lento e inesorabile. In lutto, muta, affranta, l'anno dopo la mamma torna in pellegrinaggio per recuperare il cadavere e trova, invece, il suo bambino tranquillo e vivo.

Nel 1963 il Concilio Ecumenico Vaticano II ha sbiadito prima, poi pressoché cancellato il canto gregoriano.

Forse, chissà, in una cappella sommersa, dipinta a fresco da un anonimo, in una basilica sotterranea e interrata, un bambino vivo attende fiducioso che le onde, ancora una volta, si ritirino.

Note

(1) "Ricordavo ancora (a dieci anni avevo servito messa) certi passi della messa in latino; e li confrontavo all'italiano cui erano stati ridotti; propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com'è ridotto il tale" (Leonardo Sciascia, Todo Modo, in Opere 1971-1983, Milano, Bompiani, 1989, pag. 120).

"Mi sembra che vi dimentichiate di coloro a cui non è stata data abbastanza forza per giudicare da soli, per affrontare la fede spoglia di misteri, di riti. Parlate tanto dei poveri ma sembra non pensiate a questa povertà. Dicevano tutto quello che potevano dire accendendo un cero. Era la visione della tonaca che dava l'idea del prete, sentivano il mistero ascoltando il latino" (Georges Brassens, da un'intervista ad André Sève - Frère André, in Tutte le canzoni, Padova, Muzzio, 1991.

Giuseppe Vettori, Canti gregoriani, Il più grande tesoro musicale di tutti i tempi, Scipioni 16 Ed.,Valentano (Vt) 1994. Introduzione.



Il canto gregoriano e il testo sacro

Nel canto gregoriano la lingua del testo sacro è necessariamente il latino. Mons. Garrone diceva: Esso faceva corpo unico con quella meraviglia dell'arte religiosa che è il canto gregoriano e filtra e tutto il passato mescolando la nostra preghiera con quella dei nostri padri. Aggiungiamo che la lingua sacra comporta un certo ieratismo, una distanza in rapporto all'uso corrente. Una lingua sacra non deve essere intelligibile a chiunque. Con genialità e arte consumata i compositori gregoriani misero in musica la parola e la frase latina. L'analisi musicale lo mostra abbondantemente. La polifonia spesso dissolve il testo latino nella propria ricchezza attirando l'attenzione più verso se stessa che il testo e il suo significato. Il Padre Sertillanges diceva: Il canto nacque da una aggiunta di vita data alle parole della preghiera. Ciò e particolarmente vero per il canto gregoriano. Conseguentemente il canto non è da considerarsi un vestito aggiunto alla parola alla bell'e meglio. Parola e musica non fanno che un tutt'uno. Il musicista ammira questa simbiosi del canto con la parola anche nelle melodie più ornate. L'abate Hameline ha scritto: Non si tratta di mettere la musica sulla parola, né di mettere le parole in musica si tratta di far cantare alla parola la musica che contiene. Non c'è da una parte il testo e dall'altra la melodia ma una monodia unica dove noi vediamo la melodia cantare ancor meglio le parole. Attraverso di esse si costituisce il suo movimento originale e le parole, a loro volta, sostengono e cantano la melodia, che viene trasfigurata nel suo senso, nel suo ritmo, e nella sua sonorità elementare.

Jacques Hourlier, Conversazioni sulla spiritualità del canto gregoriano, 2007 S.A.S. La Froidfontaine, Ed. de Solesmes




 

 


 
  © Cappella Musicale "San Michele Arcangelo" - Vallecorsa - Fr - 2013
  Site Map